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L'attività sociale > 2020 - Divagazioni II
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

2^ fase

 
 
 

Sebastiano Amato  

 

Le donne di Ettore. Andromaca Ecuba Elena

 

Con la morte di Ettore e la predizione della morte di Achille (Il. XXII 358-360), l’azione dell’ Iliade si ferma, perché, dopo i giochi in onore di Patroclo (XXIII), Achille, nel momento in cui riconsegna a Priamo il cadavere del figlio, concede una tregua di dodici giorni per consentire, giuste le richieste di Priamo (Il. XXIV 664-667, cfr. 781 ss.), le esequie dell’eroe, un rituale molto significativo sia per il morto che per la comunità. L’idea del poeta è geniale: chiudere il poema dell’ira di Achille nel nome di Ettore, l’avversario, il nemico abbattuto e vilipeso, la causa del suo acerbo dolore e della sua scelta estrema, ucciderlo e morire giovane. E non possono essere che le donne a dare l’estremo addio all’eroe, a recitare il compianto (góos in Omero), il ghéras, l’onore che spetta al defunto. Questa circostanza, se ribadisce da una parte la centralità della figura di Ettore nel sistema familiare della casa di Priamo, dal’altra rivela la considerazione in cui il poeta tiene le donne della casa, nei confronti delle quali Ettore ha avuto un comportamento umano,  moderno, se mi è lecito così dire, e di quasi parità, come nessuno dei guerrieri a Troia e dintorni. Tre donne che con il loro góos sul cadavere stabiliscono la dimensione eroica e umana del personaggio. Per ognuna di esse Ettore rappresenta qualcosa di unico e di insostituibile, ma a loro volta ciascuna di esse ha rappresentato per il defunto una parte fondamentale del suo mondo affettivo. Per questo il titolo non deve essere caricato di senso maschilista, quasi le donne ruotino intorno alla figura dell’eroe in modo subordinato e siano solo le officianti di un rito, che ha i suoi gesti e i suoi tempi consacrati dalla tradizione. Certo, nella civiltà omerica non possiamo trovare la sensibilità dei nostri giorni, frutto fra l’altro di lunghe  e talvolta dolorose lotte, e la donna si trova in parte collocata in una dimensione di subordinazione, ma in complesso possiamo sostenere che la sua posizione era molto più privilegiata e rispettata di quella delle donne ateniesi del V sec. a. C.
Sono, nell’ordine, Andromaca, la moglie, ed  Ecuba, la madre, e per ovvie ragioni. Quello che è più sorprendente è che la terza sia Elena, la moglie di Paride, sua cognata, quella per cui sotto Troia si sta combattendo da dieci anni una guerra feroce, e quella per cui Ettore è morto. Queste tre donne, anche Elena appare essenzialmente tale, con i loro góoi vedono l’eroe da tre angolazioni diverse, in relazione ai loro diversi ruoli, affetti, aspettative, e tutte concorrono a suggellare la figura di Ettore, uomo e eroe, ma soprattutto uomo, figlio di semplici mortali, mortale anche lui, che rappresenta uno dei vertici dell’eroismo e dell’umanità nell’Iliade, come altrove ho detto (vd. il mio Eroi e uomini dell’Iliade: Ettore).
Intorno alle tre donne e al cadavere stanno le donne troiane che fanno sentire i loro gemiti e il cordoglio della città per l’eroe morto, per il difensore perduto, per l’uomo mandato crudelmente all’Ade da Ares implacabile. Ad esse è demandata l’espressione del lutto. Ed esse effettivamente concorrono a creare l’atmosfera e a illuminare la figura dell’eroe, e al tempo stesso a rivelare la loro dolente umanità. Ognuna di esse, infatti, piange Ettore e insieme  il suo destino. Il poeta lo ha detto chiaramente a proposito del lamento di Briseide e delle schiave troiane sul cadavere di Patroclo:
     

Ως φατο κλαουσ', π δ στενχοντο γυνακες
 
Πτροκλον πρφασιν, σφν δ' ατν κδε' κστη.

Disse così,  piangendo, e intorno le donne gemevano/
per Patroclo in apparenza, ma, dentro, pel suo dolore ciascuna.
( XIX 3010-302).  


Dopo tanto corrusco balenare di bronzi, Omero compie l’ultimo straordinario viaggio nei sentimenti "comuni" degli uomini e delle donne. E questo viaggio, iniziato, 28 secoli fa, continua ancora, senza limiti e senza fine.
La scena preliminare e le manifestazioni tipiche  sono descritte a XXIV  710-713, all’arrivo a Troia di Priamo con il cadavere di Ettore. Mentre intorno al cadavere la folla si abbandona  ai lamenti, «La sposa per prima e la veneranda madre/si gettarono sul carro, presero a strapparsi i capelli/ e gli stringevano il capo…». Poi, mentre le donne intorno alzano i loro gemiti, Andromaca intona il lamento per prima, perché è la moglie e la vedova, e la morte dell’eroe mette a rischio la sopravvivenza dell’óikos, della famiglia. Ella è disperata perché il marito (áner, lo invoca) è morto giovane, ha lasciato sola lei e orfano il figlio, che la donna non sa se arriverà all’età adulta (udé min óiō/ hébēn íxesthai, XXIV 727-728).  Pur nella sua disperazione, la donna non parla del rapporto d’amore che la lega al morto, che appare secondario, (solo il vocativo iniziale tocca questa sfera), parla bensì del legame matrimoniale e dello status della famiglia, perché l’integrità della famiglia è la sola garanzia di sopravvivenza. Questa sicurezza è venuta meno e il futuro è pieno di incognite. Sembra un discorso troppo istituzionale, volto a cogliere gli aspetti pubblici, sociali, collettivi, perché la sorte della famiglia di Ettore prefigura quella della totalità dei cittadini di Troia, ma non è così, solo si pensi che Andromaca è anche la regina designata e che strettissima era la compenetrazione e interazione fra óikos e polis nel mondo omerico.  
Il presentimento più doloroso è quello che riguarda il figlio, il futuro appunto della casa, che senza padre e difensore sarà soggetto ad ogni ingiuria e in pericolo di sopravvivenza.  La donna, infatti, sa che la città, perso il suo campione, cadrà prima che il figlio diventi adulto,come già aveva detto al marito nel famoso incontro del libro VI. Destino dell’eroe, della casa, della famiglia, della stirpe sono intimamente connessi.
Il pensiero della donna non può che correre subito alle conseguenze della conquista  della città da parte degli Achei, che comporterà la schiavitù per le donne troiane, avviate subito alle navi, compresa la stessa Andromaca, schiava di un re acheo,e al figlioletto, per il quale il futuro sarà ancora più tragico, perché sconterà quelle che agli occhi dei nemici sono le colpe del padre. O seguirà, infatti, la madre nella casa di un duro padrone, dove dovrà sopportare fatiche indegne di un uomo destinato a essere re oppure un acheo lo scaglierà giù dalle mura (XXIV 734-735), amara premonizione di quello che avverrà in Stesicoro, nella Distruzione di Ilio. [vd. Lysanias (F.H.G. IV 342) ut videtur ap. Schol. Eur. Andr. 10;  cfr. Iliu Persis, II Allen V p. 138]  e leggiamo delle Troiane di Euripide. È il prezzo che deve pagare il figlio di un eroe valoroso, che per difendere la sua città ha dovuto molto uccidere e per questo molti Achei hanno dovuto mordere la terra. Ma il pensiero della donna è sempre per il figlio, come dimostra il v. 738 ricco di pathos, dove essa si rivolge direttamente al bambino:«Non era dolce, no, il padre tuo nella carneficina paurosa». Il lutto della città intera è testimonianza del suo valore e del suo sacrificio, dice Andromaca, e a questo punto non dimentica i suoceri, ai quali la morte, anzitempo e contro la legge naturale, non lascia che maledetto pianto e amari singhiozzi per la perdita del figlio prediletto, in cui essi speravano di sopravvivere. L’eredità del  valore di Ettore, per Andromaca non è certo la gloria, di cui la donna non fa parola, sebbene vi alluda, ma più drammaticamente gli álghea lygrá le "pene amare" della vedovanza e della schiavitù.
Alla fine Andromaca tocca una corda più intima e personale, tesa com’è all’ edificazione morale del marito, seppure sempre in un atteggiamento dignitosamente equilibrato, in cui appare il profondo sentimento che la lega all’uomo (dákry chéusa) che chiama per nome, Éktor: «tu non m’hai tesa la mano dal letto, morendo, / non m’hai detto saggia parola, che sempre potessi/avere presente, notte e giorno, tra il pianto» (XXIV 743-745, tr. Calzecchi Onesti).
Così, dal góos di Andromaca appare a tutto tondo la statura morale di Ettore e la dignità esemplare di Andromaca, coerentemente con quanto detto dal poeta nel libro VI, nel famoso incontro alle porte Scee.
Segue il lamento della madre Ecuba, più breve e molto diverso da quello di Andromaca. Essa guarda solo al corpo che le sta davanti, lavato e profumato, ma inerte. Non fa nessun cenno alla dimensione pubblica dell’eroe. Ella sa solo che Ettore era il più caro dei figli e che era caro agli dei, che non hanno potuto aiutarlo, ma che nella sventura non lo hanno abbandonato, sicché anche nella morte ha avuto la prova della loro benevolenza, che per la madre è almeno una consolazione, anche se non può restituirle il figlio.
Ricorda, infatti, la sorte infame e tremenda degli altri suoi figli, venduti schiavi da Achille dopo averli catturati, mentre per Ettore è stato diverso. La vendetta di Achille per la morte di Patroclo è stata certo feroce e inumana, perché indegno è stato il trattamento inflitto al cadavere legato al carro intorno alla tomba di Patroclo. Ora il corpo, non più sconciato, sta fresco e incorrotto,  anche nella rigidità della morte. E osserva  amaramente che tanta crudeltà non è servita a niente, perché « anéstēsen dè min úd’hôs»,«né l’ha resuscitato così» (756). Eppure- ed è per la madre un sollievo nel dolore indicibile- il cadavere non mostra alcuna traccia delle orribili ferite, sta disteso fresco e incorrotto e questo è segno evidente del favore divino: sembra quasi che sia stato Apollo, il dio dall’arco d’argento, con le sue dolci frecce  a spegnere la vita di Ettore. E chi per mano di un dio muore -sembra dire Ecuba nel suo dignitoso lamento - è fortunato.  
Può colpire nel lamento di Ecuba l’assenza di ogni manifestazione eclatante di lutto e di dolore, ma abbiamo visto che Omero limita questa manifestazione esteriore a prima del compianto di Andromaca e poi la assegna in maniera misurata alle donne che stanno intorno e stenáchontai, gemono e piangono, e al dêmos ápeirōn, alla folla immensa, una specie di coro tragico, che sténetai, geme. Ma del carattere ufficiale dei tre lamenti abbiamo già detto.
È sorprendente, come ho ricordato, che sia Elena, la cognata, la terza donna a piangere "ufficialmente" Ettore, ma è una grande idea del poeta.  Ci saremmo aspettati Cassandra, la sorella, ma Omero non la pensa così. A Cassandra, dato anche il suo ruolo, il poeta ha già affidato il compito di chiamare a raccolta la città, per tributare gli onori funebri a Ettore, quando Priamo ne riporta in città il cadavere (XXIV 704-705). Tocca, dunque a Elena, e mai góos fu più vero e più sincero. E il suo compianto ci illumina contestualmente sulla psicologia dell’ Elena omerica. La donna è legata ad Ettore da un affetto autentico, egli è il più caro dei cognati: è sinceramente affranta e disperata, nel suo animo ripercorre tutto il passato e l’assale il rimorso, come altre volte nell’Iliade, per quello che tanti anni prima ha fatto, cedendo alle lusinghe di Paride: È questo, ormai,  il ventesimo anno/ da che partii di laggiù, lasciai la mia patria (XXIV 765-766)). Doveva pensarci prima, potremmo osservare, ma sarebbe ozioso. Per Omero semplicemente  non è andata così. La donna sa di aver commesso un errore imperdonabile e di meritare il risentimento e il disprezzo, tuttavia Ettore in così lungo periodo di tempo non le ha fatto mai pesare il disastro che ha provocato, non l’ha mai offesa o disprezzata. Al contrario, di fronte agli atteggiamenti accusatori degli altri parenti, cognati, cognate, suocera, donne troiane in lutto, troiani che pativano sul campo di battaglia, Ettore cercava di moderarli e la  trattava con dolcezza e comprensione: tu con parole calmandoli li trattenevi/ con la dolcezza tua, con le tue dolci parole (771-772). Aveva per lei la comprensione dell’uomo forte, di chi capisce le ragioni, forse non le approva, ma le comprende, sebbene certo non possa concedere il perdono, sentimento che gli eroi omerici  conoscono poco o punto.  Sapeva, Ettore, i limiti degli uomini, perché conosceva i suoi, e le loro debolezze, ed è per questo che può comprendere Elena. Ella ne è cosciente, perché non è né insensibile né irriconoscente, come dimostra  nel suo giudizio su  Priamo di cui sa ben  riconoscere la bontà.
Il dolore è, pertanto, sincero (achnyméne kêr, XXIV 773);  lo piange amaramente, perché, come abbiamo detto, piange  sé stessa e la sua sciagura. La donna è cosciente che, perso il suo baluardo,  da questo momento a Troia nessuno sarà dolce e amorevole con lei, ma tutti l’ aborriranno e la malediranno (XXIV 774-775).
Nelle sue parole  cogliamo  affetto per il defunto, giusta e non eccessiva attenzione per la sua persona,  naturale preoccupazione per la sua sorte e  naturale desiderio auto protettivo, ma senza egoistici eccessi. Ne viene fuori il ritratto di una donna equilibrata, priva al momento di valide aspettative per un futuro inevitabilmente grigio, se non deludente. Di riflesso cogliamo nel personaggio come una rassegnata mestizia ossia la triste sospensione di chi è cosciente di vivere un’esistenza incompiuta e non certo esaltante,come abbiamo già visto,  prima nella scena in cui Iris va a trovarla per avvisarla de duello tra Paride e Menalo e la trova  nelle sue stanze intenta a tessere al telaio (III 139-140), nobile attività femminile in Omero, ma certo poco gratificante per lei, che ha sfidato ogni convenzione e regola, alla ricerca di una vita piena e, oserei dire, inimitabile e poi  nella scena  sulle mura di Troia alle porte Scee, davanti ai vegliardi troiani, consolata da Priamo (III 164; 173-176; 232,239 ), anche se poi con sublime nonchalance va a letto con Paride, sottratto da Venere alla vendetta di Menelao (III 441-448). Ma sembra una capitolazione senza entusiasmo, non un atto d’amore.  Ed ancora  nell’incontro con Ettore (VI 344-349), dove rivela ancora tutti i suoi rimorsi e rimpianti, accanto ad un sincero affetto verso il cognato. Sembra quasi che il bocciolo dell’amore, divenendo rosa, abbia perso qualcosa, o forse molto del suo fascino misterioso e della sua freschezza.
Ora, davanti al cadavere di Ettore, stanca, quasi sola, ma pienamente coerente con l’Elena precedentemente vista, (il che toglie ossigeno a teorie eccessivamente dedite a tagliare, atetizzare, emendare, cucire et similia), è ormai disposta ad accettare ciò che il destino le riserva: la resa senza condizioni. Ha, tuttavia, la forza e il coraggio di dichiarare il suo sincero sentimento per il cognato, al cui ritratto aggiunge, proprio con il suo lamento, un grande tratto di umanità, che fa di Ettore, korytháiolos "agitatore dell’elmo", ippódamos, "domatore di cavalli", dîos, "divino", pháidimos,"illustre", l’eroe perfetto, l’eroe kalòs kaì agathós.  

 
 
 

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