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Si può ancora trovare - ne siamo convinti - in questo ventunesimo secolo a nativitate Christi, con esclusione degli specialisti, si intende, qualche temerario anagnosta, che con sprezzo del pericolo si lanci nell’avventura di leggere l’Olimpica I di Pindaro, il frontone del tempio lungi splendente, dedicata a Ierone I, vincitore nel 476 alla 76 a Olimpiade col cavallo montato. Questo ipotetico intrepido cavaliere, dopo aver superato le Simplegadi dei primi versi, si imbatte nella rappresentazione di un mondo straordinario e di un momento eccezionale nella storia di Siracusa greca: l’immagine deliziosa e ad un tempo solenne dei poeti convenuti a Siracusa per celebrare Zeus e la vittoria di Ierone, il signore di Siracusa amante dei cavalli, ad Olimpia, «donde l’inno famoso/ cinge le menti dei poeti/ per cantare il figlio di Crono,/ venuti all’opulento/ beato focolare di Ierone, che nella Sicilia/ ricca di frutti/ tiene lo scettro legittimo/ mietendo il vertice d’ogni virtù, / e anche gioisce dei canti,/ il fiore dell’arte delle Muse/ che spesso intoniamo/ noi uomini intorno alla tavola amica» ( vv. 13-25; tr. Gentili). Un quadro che sembra fissare la dimensione eterna di Siracusa, veneranda dimora di Alfeo e Aretusa, casa accogliente delle Muse e delle Grazie, in un tripudio di canti e di feste. Così sarà per il futuro, per Siracusa e il suo signore, il poeta ne è sicuro e si lancia quasi in una profezia:«i giorni futuri sono/ i testimoni più saggi» (vv. 53-54). Quando Pindaro scrive l’ode, Siracusa conta 257 anni di vita. Duecento anni dopo, e di giorni come testimoni ne sono passati molti, un uomo pubblico siracusano emerge nella vita politica sempre travagliata di Siracusa, viene eletto stratego e di fatto ne assume la guida: si chiama anch’egli Ierone, sebbene secondo. La città ha ora la già ragguardevole età di 459 anni. Quando Ierone II assume il potere, vive a Siracusa un giovane poeta dal nome beneaugurante, Teocrito. Ha percorso già un tratto della sua carriera, e ha letto avidamente, dopo Omero, i tragici e i lirici, da Alcmane a Saffo, da Alceo a Simonide. Ha letto anche e gli sono tornati in mente i versi dell’Olimpica I del vate tebano, che fissano o sembrano fissare un "mito", nella mentalità greca un tempo passato e non trascorso, perché ancora presente, e, quindi, all’apparenza veritiero e perenne. Gli sembra un segno inequivocabile del destino. Ha circa trenta anni e le sue Muse di assidersi alla mensa ospitale di qualcuno che le stimi, fino a quel momento non hanno avuto speranza, anzi si sentono neglette e ignorate. È giunta la mia ora, pensa, fiducioso, il sogno pindarico può diventare realtà. Ierone non è ancora basiléus, ma è già potente: «che anche per lui e per le sue Muse, le amiche dilette, ci sia a corte un posto alla mensa che spera ospitale del nuovo signore di Siracusa»? Ad Alessandria questo avviene da tempo e in grande, perché non a Siracusa, anch’essa una metropoli? Non bisogna perdere l’occasione, bisogna farsi conoscere: necessità comanda che si scriva un encomio, ma non una lode smaccata, qualcosa che sia di più, un’ attestazione di fede poetica, di ideali di vita, con sincerità di accenti e profondità di dottrina. Deve provarci. Eppure l’ha sentita, qualche anno prima, parecchi in realtà, la graia indovina che, agitando le sorti, gli ha spiattellato in faccia: «Mai avverrà che in Siracusa, virgulto di Corinto bimare, riposo d’Alfeo, midollo dell’isola di Sicilia, mai avverrà che uno che in essa sia nato …». Il resto era stato biascicato quasi incomprensibilmente, ma il senso era chiaro, non c’era bisogno ulteriore di correre a Delfi o a Dodòna. Se ne è dimenticato per molto tempo o forse spera che la mantis si sia sbagliata. Ad ogni buon conto … non si sa mai. Pieno di entusiasmo e di speranze si applica con cura: bisogna trovare i toni giusti, fare sfoggio di qualità poetiche e di cultura letteraria, ma a questo riguardo è bene attrezzato, non dubita del risultato poetico, se mai dell’effetto che produrrà. Il risultato sono i 109 esametri di quello che nelle raccolta del Corpus Theocriteum è il carme XVI, Le Grazie o Ierone. Siamo nel 274 e Ierone, signore, ma non ancora basiléus, è impegnato nei preparativi per l’ennesima campagna contro i Cartaginesi, ma sempre Fenici, come quelli che 206 anni prima con trecento navi hanno nel settembre del 480 combattuto per il Gran Re e perso a Salamina, l’isola di Aiace. Il poeta apre l’encomio celebrando le Muse, chiamate a cantare col poeta dèi ed eroi, poi si chiede se c’è ancora qualcuno disposto ad accoglierle benevolmente e a «non mandarle indietro senza doni», poiché esse in questo caso «corrucciate tornano a casa a piedi nudi/ molto dileggiandomi perché hanno fatto il cammino invano,/ e controvoglia, nel fondo dello scrigno vuoto, di nuovo/ stanno, il capo sprofondato nelle ginocchia fredde/ là dove hanno dimora, quando vi tornano senza avere nulla concluso»(vv. 8-12, tr. Palumbo Stracca). Ma purtroppo, lamenta il poeta, la nuova civiltà dei guadagni (philokerdeia) domina gli animi e nessuno vuole spendere per la cultura: basta Omero per tutti e il poeta migliore è quello che non costa un centesimo. Eppure i grandi signori dovrebbero dare un senso alle loro ricchezze e aiutare anche gli altri e soprattutto «ai sacri ministri delle Muse dare onore» (v. 29). Così nel passato fecero gli Scopadi, così gli Alevadi, munifici signori della Tessaglia. E i poeti e le Muse ricambiarono, dando loro gloria e memoria anche dopo la vita. Così, in virtù di Omero tanti eroi godono di fama imperitura:«Dalle Muse viene buona fama per i mortali,/ le ricchezze dei morti le distruggono i vivi» (vv. 58-59). Dopo questa celebrazione della Poesia e delle grandi figure di principi mecenati del passato (non cita l’esempio di Ierone I, forse per non irritare col paragone l’omonimo contemporaneo), il poeta viene alla sua personale ricerca di aiuto:«Cerco chi tra i mortali mi accolga con favore, / insieme con le Muse; ché ardue son le vie per i poeti,/ senza le figlie di Zeus alto consiglio» (vv. 68-70). E si rivolge a Ierone:«Vi sarà quest’uomo che di me poeta avrà bisogno, / compiute imprese quali il grande Achille e il fiero Aiace/ compì nella piana del Simoenta … Già ora tremano i Fenici a occidente/ abitatori dell’estremo lembo della Libia,/ già brandiscono i Siracusani a mezzo le aste,/ le braccia gravate dagli scudi di salice;/ tra loro schierati in prima fila, Ierone pari agli eroi antichi /si cinge l’armatura, e il cimiero equino gli ombreggia l’elmo»» (vv.73- 81). Il poeta si augura che Atena, protettrice della città presso le onde della Lisimelia, respinga indietro i nemici, pochi di molti, nel mare sardo e che in città regni di nuovo la pace. È il momento in cui gloria polico-militare del guerriero e ufficio sublimante della poesia si incontrano e creano per Ierone e per Siracusa la dimensione temporale e spaziale della fama e della memoria che supera i secoli: «Alta gloria a Ierone rechino i poeti/ oltre il mare scitico e là dove regnava/ Semiramide, che cementò con l’asfalto l’ampio muro./ Uno son io; molti altri ne amano le figlie/ di Zeus, e a tutti stia a cuore di celebrare (hymnein) la sicula Aretusa/ con la sua gente, e Ierone bellicoso (aichmetàn)» (vv. 98-103). Il poeta offre la sua disponibilità in maniera dignitosa:«se non sarò chiamato rimarrò qui; ma da chi m’invita/ fiducioso andrò con le mie Muse» (vv.105-107). Sa, però, che non è facile, sa che i suoi versi potrebbero non ottenere ascolto presso Ierone e quindi, un po’ sfiduciato, conclude il canto con un’appassionata dichiarazione d’amore e di fede poetica: «Io non vi lascerò: che cosa c’è d’amabile per gli uomini/ senza le Grazie? Sempre con le Grazie possa restare (aei Charitessin am’eien)» (vv. 108-109). Il carme è in realtà qualcosa di più che un semplice encomio, è anche una confessione, una dichiarazione di ideali di poesia e di vita. Al fondo di esso cogliamo anche il senso se non del tramonto almeno del crepuscolo di una civiltà e per questo il sorriso delle Muse teocritee ci appare un po’ amaro e melanconico. Ierone non ascolta, non vuole o non può in quel momento, non lo sappiamo e in fondo poco importa, anche se Siracusa perde una grande occasione. E con le sue Muse e sempre ad esse fedele rimane il poeta, ma in altro luogo. Del resto è ormai il terzo secolo, non il quinto dei Dinomenidi e per di più egli è siracusano, non di un’altra polis e, dunque, come ha detto la vecchia mantis – ora se ne ricorda - … Poiché in quel momento Ierone e i Siracusani delle sue Muse non sanno che cosa farsene, esse possono restare nel fondo della cassa, vergognose e reiette. Deve portarle altrove. E dove se non ad Alessandria, sotto la protezione del Filadelfo? Così al poeta delle Incantatrici, delle Siracusane, delle Talisie, del Tirsi, dell’Epitalamio di Elena, dell’Amore di Cinisca, del Ciclope, non resta che trasferirsi ad Alessandria, la capitale culturale del Mediterraneo, la meta agognata di tutti i poeti e di tutti i dotti. Tra il 273 e il 272 pubblicherà un non brillante e poco schietto Encomio a Tolomeo, da cui, comunque, ottiene favore e protezione. Lì, sul delta del Nilo, concluderà la sua parabola di uomo e di poeta. Le Muse bucoliche teocritee trovano continuatori di un certo livello nel siracusano Mosco, vissuto intorno al 150 e nello smirneo Bione, vissuto circa quaranta anni prima di Virgilio. Ma il fatto avviene duecentotrentacinque anni dopo l’encomio di Ierone. Nel 695 di Siracusa, 715 di Roma, un giovane poeta "doctus" e "novus" di Andes (a Mantua non procul), di famiglia di origine contadina, ma molto agiata, che parla il latino e il greco e che di nome fa Virgilio, pubblica le Bucoliche, dieci componimenti di ambiente pastorale, detti anche Ecloghe. Ispiratrici della raccolta sono proprio le Muse di Teocrito, le Sicelides Musae (IV 1); il modello da imitare e superare la poesia pastorale teocritea:«Prima Syracosio dignata est ludere versu/ nostra neque erubuit silvas habitare Thalia», «A me si degnò primamente Talia di cantare/nei siculi modi e d’abitare nei boschi» (VI 1-2, tr. Cetrangolo). E nell’incipit della celebre X ecloga il poeta latino, avvertendo i lettori che con questo componimento si conclude la raccolta, rende omaggio al poeta siracusano:«Extremum hunc Arethusa, mihi concede laborem», «L’ultimo canto, o Aretusa, concedimi». Ancora molti anni dopo, a chiusura del libro quarto delle Georgiche, Virgilio si ricorda di quell’esperienza straordinaria, con nostalgia e commozione: «illo Vergilium me tempore dulcis alebat/ Parthenope studiis florentem ignobilis oti,/ carmina qui lusi pastorum audaxque iuventa,/ Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi», «Allora vivevo, io Virgilio, in seno alla dolce/ Partenope, lieto e appartato fra cure tranquille;/ io che versi campestri composi e giovane audace /cantai, Titiro, te sotto i rami larghi del faggio» (IV 563-566, tr. Cetrangolo). E «cecini pascua rura duces» «cantai i pascoli, i campi, i condottieri» detta anche nel distico del titulus, che egli stesso, secondo una tradizione che risale almeno a Svetonio, in punto di morte detta, «quem moriens ipse dictitaverat» (Hieronymus, Chronicon; così anche nella Vergilii vita di Donato, ma non sappiamo con certezza se lo abbia veramente fatto). Certo, Virgilio è poeta molto più grande. Le sue Bucoliche, nelle quali già cogliamo quella "musica dell’anima", che sarà la nota distintiva, genialmente originale e antiepica della poesia virgiliana, esplorano vie dell’animo umano e della condizione degli uomini non presenti o appena affioranti nell’esperienza poetica di Teocrito. Ma proprio per questo, per il fatto che il grande poeta latino lo abbia scelto a modello per una parte del suo percorso (Theocritum secutus, come leggiamo nella Vita Vergili di Valerio Probo) è un grande motivo di vanto, perché rappresenta il riconoscimento di una dimensione poetica non secondaria. Così le Muse teocritee, le sue Moisai philai, ispiratrici nel Tirsi del canto bucolico, hanno traslocato dall’Anapo al Nilo, dal Nilo al Mincio e dal Mincio al Tevere. Poi, attraverso un cammino lungo e mai interrotto (Calpurnio Siculo, Carmina Einsiedlensia, Nemesiano, Sannazaro, Arcadia), non solo testimoni di una dotta e raffinata maniera di fare poesia (K. Kavafis, Il primo gradino), ma ancora significativamente esemplari di un modo di vivere nella Natura e non contro di Essa, sono giunte fino a noi, e in questo "noi" dovremmo essere inclusi anche i Siracusani.
Sebastiano Amato Presidente della Società Siracusana di Storia Patria
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