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In generale, e l’Italia è un caso quasi esemplare, la storiografia militare non sempre gode di buona stampa non solo fra gli storici di professione ma anche fra gli intellettuali, che la considerano storiografia di sere B.
È un pregiudizio poco intelligente, ma, come tutti i pregiudizi, è aprioristicamente saldo e duro nelle sue convinzioni e spesso addirittura dogmatico.
Ci sono paesi, comunque, in cui essa è molto più sviluppata e attiva e produce opere valide e di alto valore scientifico sia sotto il profilo squisitamente tecnico sia, non di rado, anche sotto quello più propriamente storiografico.
Non sorprende, quindi, che il volume, ben scritto e molto documentato, dell’ame- ricano Robert M. Citino, The Wehrmacht Retreats. Fighthing a Lost War, 1943 (Leg edizioni, Gorizia 2018), rappresenti un momento significativo di questa tradizione. L’edizione italiana, fra l’altro, lo inserisce a pieno titolo nella tradizione storiografica europea più nobile e illustre, dal momento che il titolo 1943 Declino e caduta della Wehrmacht, fa eco al celeberrimo The Decline and Fall of the Roman Empire di Edward Gibbon.
L’autore si propone lo scopo precipuo di mettere a fuoco, analizzare e valutare l’operato della Wehrmacht tra la fine del ’42 e la fine del ’43. Non cura, però, di ricostruire dettagliatamente le operazioni sul fronte africano, siciliano, italiano e soprattutto orientale, ove erano impegnati due terzi delle divisioni tedesche. Sarebbe stata un’opera per lo più ripetitiva, in quanto queste operazioni sono state analizzate in maniera quasi autoptica dalla storiografia, ufficiale e non, dei paesi belligeranti. Vuole, invece, individuare la struttura culturale dello strumento con cui Hitler tentò di sovvertire l’ordine e l’assetto politico europeo e mondiale, quale si era consolidato dopo la pace di Versailles, e di realizzare la sua folle visione del mondo. Si propone, cioè, di sottoporre a una revisione critica equilibrata i concetti strategici e tattici sui quali la Wehrmacht pianificava e realizzava le operazioni sul campo. Va in cerca dei motivi profondi della inevitabile sconfitta di uno strumento che all’inizio della guerra sembrava invincibile. Essi, a parere dell’autore, sono annidati proprio nelle pieghe della cultura e del pensiero militare della Kriegsakademie tedesca. Si tratta anche, come già si comprende, di rivisitare e di ricondurre a dimensioni razionali quello che è stato considerato quasi un mito.
Citino lo fa partendo dal momento in cui la macchina da guerra germanica, raggiunto il punto di «culmine della vittoria», per dirla con Clausewitz, non essendo riuscita a cogliere la vittoria strategica definitiva, iniziò inesorabilmente a perdere. Sicché la Wermacht, nata e preparata per l’attacco, a partire da El Alamein e da Stalingrado combatté sempre una guerra difensiva, brillante e abile certo, ma già persa. Da quel momento, infatti, malgrado alcune vittorie o mezze vittorie tattiche, essa subì una scia di sconfitte a oriente e a occidente.
Operazione, dunque, anche di demitizzazione, attraverso la quale il modus operandi della Wehrmacht viene inscritto all’interno non delle capacità geniali dei comandanti tedeschi, ma della cultura militare germanica consolidata già dai tempi di Friedrich der Grosse. Lo schema fu sempre il medesimo, con gli ovvi accorgimenti in relazione alle situazioni ambientali e tattiche.
La Prussia era una nazione piccola, con poche risorse economiche e umane rispetto ai giganti che la fronteggiavano a est e a ovest. Federico il Grande ne aveva tratte le naturali conseguenze: la Prussia non aveva altre possibilità che combattere guerre «kurtz und vives» «brevi e accanite». Il concetto tattico discendeva da questa premessa socio-economica: una guerra breve e accanita deve necessariamente fondarsi sul movimento. La Prussia deve evitare assolutamente la guerra di posizione e di attrito, il Stellungskrieg, perché impraticabile e esiziale, e deve privilegiare il Bewegungskrieg, la guerra di movimento, combinando velocità e coordinazione. (I tedeschi non usarono mai il termine Blitzkrieg, impiegato per la prima volta, pare, da un giornalista inglese in Polonia). Una volta individuato lo Schwerpunkt, il centro di gravità della battaglia, si doveva sviluppare la penetrazione (Einbruch) e il successivo sfondamento (Durchbruch), per poi operare continui attacchi concentrici (durchkonzentrischen Angriff) per aggirare e chiudere il nemico nel "calderone" come dicevano (Kesselschlacht), togliendogli ogni possibilità di manovra. Questa fu la bibbia della dottrina militare prussiana e poi tedesca. Ad essa si attennero scrupolosamente i generali che guidarono le armate e i corpi d’armata della Wermacht; l’applicarono sul campo, finché poterono, dall’Africa alla Russia, sempre fedeli al modello. E questo fu il «modo tedesco di fare la guerra».
Spesse volte, quindi, la pretesa genialità era un portato della scuola, il risultato necessario dell’insegnamento impartito: l’azione era il risultato della formazione, eccellente sotto il profilo tattico, ma un po’ carente - rileva l’autore - in quasi tutti i generali sotto l’aspetto strategico e logistico per non dire politico, data la quasi sempre assoluta fedeltà, se non corresponsabilità con Hitler. Eppure questi sono elementi non secondari in un comandante di un gruppo di armate. E proprio lo scollamento tra tattica, logistica e strategia fu il tallone di Achille di generali come Rommel o Manstein, il quale ultimo, prigioniero quasi degli insegnamenti ricevuti, si ridusse a combattere, al pari degli altri, una guerra puramente dilatoria «hinhaltender Widerstand».
Ma nel 1943 questo schema non era più vincente e quando non fu più possibile applicare questo modello su scala strategica venne il turno dei generali di scuola e mentalità "difensiva", come Kesserling in Italia e Model in Russia ad es., abili certo nel contrattaccare localmente con la solita tattica, ma misticamente dediti a combattere una guerra diventata inutile, a fare «la guerra per la guerra», alcuni per carenze strategico-politiche, quasi tutti perché troppo legati e fedeli ad Hitler, come il "sorridente" e ottimista Albert Kesserling, risultando alla fine incapaci di scorgere la soluzione "politica" di un conflitto già perso. "Bellum gratia belli" potrebbe essere il loro motto. Eppure Clausewitz aveva loro insegnato che il fine della guerra non è la guerra. Questi generali se ne dimenticarono e dimenticavano anche l’insegnamento di Federico. Delle stesse colpe e anche di più gravi si macchiarono i Feldmarescialli dell’OKW. Tutti, poi, o almeno i sopravvissuti, a catastrofe avvenuta, rovesciarono le colpe su Hitler, cosa che veniva molto facile.
L’autore analizza, come dicevo, sotto il profilo dottrinario e dell’impiego sul campo, la campagna d’Africa, da El Alamein a Tunisi, la battaglia di Kharkov e soprattutto la battaglia di Kursk, la campagna di Sicilia e d’Italia fino a Salerno e le operazioni tedesche in Russia nel luglio - novembre 1943. In tutti questi cicli operativi coglie i segni della dottrina e i germi della sconfitta tedesca, insiti nei limiti della loro scuola e soprattutto nella incapacità di apportare correttivi efficaci, che poi diventarono impossibili quando la superiorità degli avversari diventò schiacciante e il loro modo di fare la guerra prese in sopravvento.
Il punto centrale del libro credo debba ravvisarsi nel cap. 4 La battaglia di Kursk: una revisione critica. In esso viene analizzata l’operazione Zitadelle del luglio del 1943 con la quale i tedeschi cercarono solo, secondo l’autore, di recidere alla base il saliente per rettificare il fronte: insomma un attacco difensivo e non una grande manovra per destabilizzare tutto il fronte, come appare nella letteratura militare russa, che dà un significato strategico che i tedeschi non pare abbiano assegnato all’attacco portato da Orel a nord e da Belgorod a sud. Malgrado le limitazioni concettuali che Citino ravvisa nel piano tedesco, lo scontro, tuttavia, rimane esemplare e gigantesco.
Non c’è dubbio infatti, che il grande attacco a tenaglia, portato dalla 4 a Panzerarmee dell’Armeegruppe Süd (Manstein) contro il fronte di Voronezh in direzione nord e dalla 9 a Armee dell’Armeegruppe Mitte (Kluge) contro il Fronte Centrale con direzione sud vide impegnati circa 900.000 uomini e 2.700 carri armati, ai quali i sovietici opposero 1.300.000 uomini, 3.600 carri armati e 8 linee campali di sbarramento, alla costruzione delle quali avevano prestato la loro opera anche 300.000 civili. Era un piano in ogni caso letale e poteva riuscire; e se fosse riuscito non è detto che i tedeschi, pur non avendolo previsto in partenza, non proseguissero per tentare una manovra ancora più ampia, per destabilizzare tutto il fronte e puntare eventualmente su Mosca, come pensavano e affermarono, anche forse per propaganda politica, i sovietici. E non c’è dubbio che la terribile "collisione" di Prochorovka, un puro e semplice cozzo frontale tra il III Panzerkorps e la 5 a Armata corazzata della Guardia, rappresentò il principio della fine delle ambizioni tedesche di risolvere a loro favore il conflitto. Poco importa se essa sia stata o no il più grande scontro di carri di tutti i tempi. Certo è che, leggendo la vivida descrizione dello scontro del col. G. A. Koltunov, fatte le debite proporzioni, non posso non ricordare le sintetiche e vigorose righe dedicate da Senofonte (Hell. IV 4, 19) al cozzo cieco tra Tebani e Lacedemoni a Coronea (mezzo-agosto 394 a. C.).
Il piano tedesco non era un capolavoro e l’autore lo critica giustamente come elementare e grezzo, privo com’era di ogni manovra per sbilanciare il nemico, ma contava molto sulla determinazione e l’abilità delle truppe corazzate del III Waffen SS Panzerkorps. I sovietici dimostrarono, però, di aver superato il gap tecnico-tattico iniziale quanto a conduzione dei carri e a dottrina d’impiego degli stessi e di essere in grado di fronteggiare alla pari i tedeschi e di superarli in uomini e armamenti. Dal fallito tentativo tedesco si svilupparono, poi, le varie offensive russe, anch’esse sulle direttrici di Orel e di Belgorod, che alla fine portarono i russi alla riconquista di Kharkov. E Kiev, la madre di tutte le città russe, non era poi così lontana.
Nel corso dell’analisi Citino discute necessariamente del modo russo di fare la guerra, come si era venuto evolvendo dopo le catastrofi del ‘41 e della prima parte del ‘42. Il concetto fondamentale era l’«attacco in profondità», reiterato anche ossessivamente e senza risparmio di unità, di uomini e di mezzi. Zhukov e i suoi generali lo applicarono perché sapevano di poter disporre di più mezzi e uomini dei tedeschi. Esso permetteva di poter realizzare una forza d’urto dirompente nel punto dove si realizzava la superiorità tattica e una penetrazione inarrestabile che sconvolgeva il nemico e tendeva ad un avvolgimento in sacche che non avrebbero dato scampo. Ma in guerra naturalmente non sempre la teoria viene poi completamente dimostrata dai fatti. La cosa, infatti, talvolta funzionò anche se non al massimo, e talvolta fallì, perché interi corpi d’armata, spintisi troppo avanti finivano per non poter essere supportati logisticamente e fecero letteralmente naufragio nelle linee tedesche con perdite spaventose.
L’autore, comunque, ridimensiona di molto i giudizi negativi che i tedeschi dettero dei russi, considerati rozzi e barbari, forza bruta contrapposta all’eleganza della manovra tedesca. Egli riconosce, invece, pur con qualche limite tipico nell’ elaborazione e nelle rifiniture, il buon livello raggiunto dalla dottrina sovietica, che seppe sfruttare i fattori strategici di cui godeva: il numero, lo spazio e in qualche caso il tempo. Questo alla lunga fece la differenza. Citino, infatti, proprio a proposito dei numerosi contrattacchi sovietici del luglio 1943, osserva con ironia:«La Wehrmacht esaurì le divisioni prima che l’esercito russo esaurisse le offensive» (p. 313).
Nell’esame degli altri cicli operativi l’autore è imparziale e quindi non risparmia critiche ai suoi connazionali che nelle varie operazioni (Torch, Husky, Avalanche) dimostrarono di non aver bene assorbito i concetti teorici e tattici della guerra moderna, anche se è disposto a cogliere indubbi miglioramenti di cui avrebbero fatto tesoro al momento dello sbarco in Normandia. Sperimentarono, però, l’azione coordinata con l’aviazione e la marina, del cui fuoco irresistibile con i grossi calibri si servirono in più occasioni (questo impiego, ricordo, li avrebbe salvati anche in Corea), e l’impiego in massa dell’artiglieria terrestre, che non soffrì mai di problemi di approvvigionamento. Del resto gli americani stavano combattendo nel Pacifico in un teatro di oltre 200 milioni di km 2 un’ "altra" guerra, altra e diversa. Sugli inglesi dice poco, ma non li ama in maniera appassionata. Del resto il modo di combattere del visconte di El Alamein lo conosciamo bene.
È un’opera tecnica e l’autore sta al tema senza mai dare giudizi morali, ma nella conclusione non può esimersi dal palesare il suo giudizio sull’ideologia politica sottesa alla dottrina della Wehrmacht e addebita all’esercito tedesco la vergogna delle campagne di sterminio, che non furono solo opera della Waffen SS, ma macchiarono indelebilmente anche l’onore dei soldati tedeschi.
Libro di riflessione teorica e di ricerca d’archivio, in cui l’autore dispiega accurata capacità di ricerca e di valutazione di una grande quantità di documenti, molti dei quali inediti e addirittura manoscritti, vergati dai protagonisti delle vicende, come quelli raccolti nel grande centro Army and Education Center di Carlisle in Pennsylvania. Manca la bibliografia italiana, forse perché l’autore non è riuscito ad identificare il modo italiano di fare la guerra.
La traduzione di Vincenzo Valentini si raccomanda per la capacità di far traspirare la trama linguistica dell’originale, semplice e briosa: dottrinariamente saldo, il volume risulta, perciò, di piacevole lettura per gli specialisti e per i digiuni della res militaris, che è ratio et usus belli, come diceva il divus Iulius.
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