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Sabato 11 giugno 1289, giorno di San Barnaba, sul pianoro della conca di Campaldino, davanti al castello di Poppi dei conti Guidi, nei pressi del monastero francescano di Certomondo, avvenne il formidabile cozzo tra i cavalieri fiorentini da una parte e aretini dall’altra. La vittoria arrise alfine ai primi, ma non per codardìa dei secondi e fu, quindi, pagata a caro prezzo. Nella cavalleria fiorentina, tra i feditori a cavallo, che era la cavalleria pesante di linea con corazza, lancia e spada, e non la cavalleria leggera(come con garbo l’autore fa notare, correggendo l’opinione di tutti i dantisti), militava un giovane di ventiquattro anni, che aveva casa a Firenze nel sesto di San Piero e apparteneva al popolo (parrocchia) di San Martino del Vescovo. Le case di famiglia erano molto vicine a quelle a quelle di Geri del Bello, oltre che a quelle dei Cerchi e dei Donati, capi, i primi dei Bianchi e i secondi dei Neri. Combatté fra i 150 della prima schiera, scelti tra i 1200 o 1600, cavalieri fiorentini presenti sul campo, secondo le varie fonti, e gli toccò anche di rinculare in un primo momento, per non essere "scavalcato" dall’urto possente dei cavalieri aretini, cioè «per lo scampo», come sappiamo da lui stesso. Si chiamava Dantis Alagherii, Dante (diminuitivo di Durante) Alighieri, il Poeta di cui abbiamo già cominciato a ricordare e celebrare i 700 anni dalla morte. Proprio con la battaglia di Campaldino inizia la biografia dantesca, affascinante, terrena e carnale di Alessandro Barbero, Dante, Bari - Roma ottobre 2020. Perché, ci chiediamo. Perché Dante, come cittadino di Firenze, diede sempre a questo episodio una grandissima importanza e ne fu orgoglioso, sicché esso rappresenta una specie di discrimen nella rappresentazione che della vita egli si creò e volle accreditare. Anche perché la partecipazione a quella battaglia ebbe il suo peso nella sua lunga riflessione sulla nobiltà e sulla virtù, ricca di riprese e di soluzioni contraddittorie, fino agli ultimi anni della vita. Combatté fra i cavalieri, come miles dunque, ma in qualità di «cavaliere di cavallata» e non di«cavaliere di corredo», quindi non era nobile, anzi i suoi «maggiori» erano stati, in fondo, usurai, sebbene in una città in forte espansione economica, dove moltissimi prendevano denaro a prestito per investimenti e molti li prestavano a tassi molto alti, gli uni e gli altri con vantaggio. Egli stesso possedeva terreni e case, le cui rendite gli permettevano di potersi dedicare agli studi e mantenere cavallo e armatura ed esercitarsi. Non era ricco, ma nemmeno povero. Sarà l’esilio a fargli sentire i morsi dell’amara povertà. E poi, tra un aggrovigliato intrigo di famiglie bianche e nere, in lotta feroce e sanguinosa, ma talvolta e simultaneamente socie in affari, tra matrimoni, tradimenti, voltafaccia, inganni, ripensamenti, falsificazioni, compromessi, mai in maniera diretta, ma sempre con molti contorcimenti e sottintesi, mentre il pendolo della Storia oscillava tra Papato (Summus Pontifex…qui secundum revelata humanum genus perduceret ad vitam ecternam) e Impero (temporalis Monarchia e Imperator, qui secundum phylosophica documenta genus humanum ad temporalem felicitatem dirigeret, dirà in Monarchia III 16, 10, ribadendolo nella Commedia con la teoria dei due soli, ma era una pia illusione), in un contesto di questo genere, ripeto, un episodio bellico violento e cruento è ben adatto a introdurre alla lettura di una biografia fatta di carne e di sangue, di passioni e di odî, di ferite profonde, sanguinanti e mai rimarginate, nel mondo tumultuoso, violento e sanguinario del Medioevo, dove spada e crocifisso cambiavano sovente di posto, quando non andavano a braccetto. L’autore, quindi, ci accompagna passo dopo passo, a partire dalla seconda metà del maggio del 1265 alla notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Prima nella casa di Via San Martino, oggi via Dante, a Firenze, poi nei luoghi dove il "popolo" esercitava il potere contro i magnati, in maniera spesso arbitraria e discriminatoria, e dove Dante opera immerso nella vita pubblica, forte della sua fede "popolare", che in futuro scemerà molto fino a scomparire. Poi, a partire dall’autunno 1301 e dai primi mesi del 1302, anno del bando e dell’esilio ad opera dei Neri, lo scenario si allarga al tragico periodo della compagnia malvagia e scempia, ai tentativi violenti di rientrare a Firenze, falliti miseramente, all’abbandono di essa. Vediamo un Dante combattuto tra delusioni, pentimenti e desiderio di perdono, fin quasi all’umiliazione, per poter rientrare a Firenze. Girovaghiamo ancora insieme a lui fra le corti nobiliari dell’Appennino, i conti Guidi in particolare, al soggiorno presso Moroello Malaspina a Sarzana e presso i Della Faggiola; e quindi lo seguiamo fino a Pisa(?), Parigi(?), Bologna, Verona presso Cangrande della Scala, con non pochi punti interrogativi, Ravenna presso Guido Novello da Polenta, dove la parabola terrena dell’esule inmeritus, divenuto cittadino del mondo, ma rimasto fiorentino fino al midollo, malgrado l’inscriptio della Comedia «fiorentini natione, non moribus», e innamorato di Fiorenza e del suo bel San Giovanni, si concluse. Di quest’uomo, immerso nel suo tempo e non astratto pensatore e discettatore, esperto anche nell’ars dictandi, l’autore ci racconta in modo esemplare, alla sua maniera, con una scrittura chiara e lucida, distesa in una narrazione brillante e leggera, sfatando molti luoghi comuni, distruggendo o ridimensionando di molto non poche certezze dei dantisti, insinuando il dubbio, proponendo nuove ipotesi e soluzioni, mai definitive e sempre "falsificabili", per dirla in linguaggio alto, perché spesso i nuovi dati, archivistici o argomentativi, offrono sì scenari nuovi, ma al contempo pongono nuovi interrogativi. E lì egli talvolta ci lascia, sornione e ironico, dopo aver messo sul tavolo tutti in dati in nostro possesso, come un investigatore, lasciandoci il compito non facile, ma certo stimolante, di decidere per poi ricominciare a tutto ripensare. E non sempre è agevole orientarsi tra fazioni e orientamenti politici fluttuanti, tra nomi di parenti e di affini, di amici e nemici, molti i primi, moltissimi i secondi, e riuscire a cogliere nel profondo le dinamiche politiche e sociali di Firenze guelfa; non sempre è agevole capire il senso di alcune scelte dell’uomo Dante, spesso in contraddizione con sé stesso, molto diverso dal poeta, di cui crediamo di conoscere le granitiche certezze che stanno alla base di opere come la Monarchia e la Comedia. A questo proposito, mi permetto di fare osservare (faccio per dire) all’amico Barbero che alcune tavole genealogiche esplicative avrebbero molto aiutato il lettore non specialista a sistemare con bussola o GPS la topografia delle famiglie con le quali gli Alighieri e Dante nella sua non tranquilla vita ebbero rapporti. Soprattutto avrebbero aiutato gli studenti delle Scuole Superiori che credo debbano leggere questo libro prima di iniziare lo studio serio, ma non stucchevolmente erudito, della Divina Commedia, perché non solum oportet sed etiam necesse est che ‘l poema sacro/ a cui ha posto mano e cielo e terra (Pd. III 25,1) si cominci a ristudiarlo, e qui ci vuole, "come Dio comanda". Ci viene, così, restituito Dante come persona che vive, mangia, si muove, ama e non solo Beatrice, che, sposata a un suo amico, a 25 anni è già morta, odia, ha curiosità, parla, disserta, critica. Dante uomo e cittadino, che propone leggi e disposizioni, che frequenta i luoghi del potere politico del comune di Firenze, che rischia, che sbaglia, che paga amaramente la sconfitta con il bando e l’esilio che risulterà perpetuo. Dante, che da fervoroso rappresentante del popolo guelfo bianco diverrà sostenitore della necessità dell’Impero universale, con la grande e irrimediabile delusione patita per la morte improvvisa di Arrigo VII, sul quale aveva riposto grandi speranze per la redenzione dell’Italia e di Firenze in particolare. Ci viene restituita nella sua vitalità la vita, l’humus nella quale affondano le radici le sue opere e soprattutto la Divina Commedia. Sempre vicende complesse e non sempre in maniera univoca documentate dalla tradizione, pure abbondante, sia le fiorentine che quelle dell’esilio, quest’ultime (ricche di spostamenti, di umiliazioni, malgrado il prestigio culturale di cui godeva), non sempre facili da seguire e non sempre sicure, come un tempo si voleva e come sono stati tramandate a partire dagli eruditi e commentatori medievali, in primis da Boccaccio, e umanistici, che talvolta divinavano in contrasto fra di loro su qualche passo di atto notarile. Per non dire dei suoi atteggiamenti e dei suoi giudizi non di rado arrischiati e sorprendenti, come quelli sui Della Scala, e spesso in contrasto- come l’autore ben dimostra- con la tradizione vulgata. E io credo che il rapido fiorire per l’occasione di studi danteschi porterà alla fine molte novità e rinnovato interesse per il poeta, anche nel dibattito su quale Europa vogliamo in futuro veramente costruire. La chiusa del libro ci chiarisce quasi il fine dello stesso. Le ultime tre righe [Dante deve essere morto nelle prime ore della notte fra il 13 e il 14 (settembre). Quella notte, il profeta andò a scoprire se quanto aveva immaginato in tutti quegli anni era vero], chiudono, infatti, in maniera "apocalittica" la porta sulla vicenda terrena dell’uomo e spalancano quella della sua Poesia, cioè della Divina Commedia, un universo di pensieri e di forme stupefacenti, che rappresenta veramente la Summa del Medioevo cristiano ed europeo, sulla base della filosofia tomistica e aristotelica, e uno dei vertici assoluti della poesia di ogni tempo. Ma essa è intrisa degli umori della sua vita terrena, aspra e difficile, che Barbero con la solita eleganza stilistica e leggerezza di approccio ha splendidamente raccontato, avvincendoci. Libro di divulgazione, vorrei dire, di altissimo livello (ma che significa, in realtà?). Esso cela, come si comprende subito, profondissima cultura. Per rendercene ulteriormente conto, basta sfogliare le 60 pagine in corpo 9 delle note e dare una scorsa alla bibliografia. Ma l’aver raggiunto un cotale grado di mediazione, anche per uno storico specialista dell’Età media, è in realtà segno non piccolo del "suo merto".
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