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Esamineremo rapidamente la storia e l’evoluzione di un tópos, cioè di un luogo comune, in sintesi di un sintagma - modello, riutilizzato per secoli in contesti poetici lontani e diversi, ma sempre in maniera semanticamente efficace. Appare chiaro che il tópos è produttivo se è esemplare, cioè funziona per la formulazione seguente, e autorevole, in virtù del prestigio dell’opera da cui deriva. Contempla anche la possibilità dell’infrazione, per poter sopportare qualche variante, in virtù della quale si possono creare nuovi modelli, a loro volta più o meno produttivi. Giovanni Del Virgilio, maestro di latino nello studio di Bologna, sullo scorcio del 1319, scrive a Dante, che in quel periodo si trova a Ravenna, presso Guido da Polenta, un Carmen latino in forma di ecloga. In esso esorta il poeta, già molto noto, a lasciar perdere le opere in volgare, compresa la Comedia, alla cui terza cantica l’Alighieri attende, e a comporre un grande poema epico- storico in latino, per conquistare la vera gloria poetica presso i dotti ed essere incoronato poeta proprio a Bologna, che Dante, invece, definisce l’antro del Ciclope. Nell’ecloga utilizza, e per metafora, una suggestiva immagine virgiliana, "attualizzandola" e addirittura utilizzandola con riferimento a importanti fatti politici e militari contemporanei: «dic age quos flores, quae lilia fregit arator »,"dimmi suvvia quali fiori, quali gigli spezzò l’aratore" (I 27). La metafora indica uno degli argomenti che Dante dovrebbe trattare in questo suo poema latino: la grande vittoria riportata da Uguccione della Faggiola, signore di Pisa e Lucca, sui Guelfi fiorentini e gli Angioini (flores…lilia) nella battaglia di Montecatini il 29 agosto 1315. Il maestro bolognese si era ricordato di Virgilio, e non poteva essere diversamente, data la sua profondissima conoscenza e venerazione per il poeta, la cui poesia considerava quasi una professione di fede, onde anche il nome. Il passo in questione è una similitudine ampia e al solito ricca di gentile umanità: «purpureus veluti cum flos succisus aratro/ languescit moriens lassove papaver collo/ demisere caput, pluvia cum forte gravantur», «come un fiore purpureo quando, reciso dall’aratro/ languisce morendo, o come i papaveri che chinano il capo/ sul collo stanco, quando la pioggia li opprime» (Aen., IX 435-437, tr. Luca Canali). Virgilio sta descrivendo la scena in cui Volcente trafigge Eurialo, il cui capo "si adagia reclino sulla spalla" (cervix conlapsa recumbit, 434). Virgilio riprenderà l’immagine in parte nell’XI libro, vv. 67-71, a proposito di Pallante morto, trafitto a tradimento: «Hic iuvenem agresti sublimem stramine ponunt,/ qualem virgineo demessum pollice florem/ seu mollis violae seu languentis hyacinthi/cui neque fulgor adhuc nec dum sua forma recessit », «Qui depongono il giovane, alto su agreste fieno:/quale fiore spiccato dalla mano di una fanciulla,/ sia di molle viola, sia di languido giacinto,/a cui ancora non svanì lo splendore né la bellezza»(tr. Luca Canali). Come si nota, Virgilio ammorbidisce l’immagine, introducendo la gentile mano di una fanciulla (che proviene in qualche modo da Cat., 62, 43: «idem ( scil. flos) cum tenui carptus defloruit ungui» «poi lo colgono dita sottili e lo fanno sfiorire» tr. Mandruzzato) e colorendo attraverso l’aggettivazione. La bella immagine virgiliana sviluppa un antecedente celebre: sempre Catullo, XI 22-24. Per completezza cito per intera la strofe saffica, per rendere palese il contesto: «nec meum respectet, ut ante, amorem/ qui illius culpa cecidit velut prati/ ultimi flos, praetereunte postquam/ tactus aratro est »,«più non si volga, come un giorno, a cercare il mio amore,/ che per colpa sua è caduto come un fiore/ sul ciglio del prato, reciso dopo che sopra/ è passato l’aratro». Lesbia ha tradito per l’ennesima volta Catullo. È la fine dell’amore. Il poeta prega gli amici Furio e Aurelio di comunicare alla donna di non cercarlo più. Il carmen XI segna, dunque, l’addio definitivo fra i due amanti. L’immagine di Catullo è più severa, quella di Virgilio più morbida e più articolata (vedremo fra poco il perché), ed è stata utilizzata per qualcosa di diverso, ma sempre di definitivo: in Catullo la fine di un amore, in Virgilio la fine di una giovane vita. A sua volta Catullo ha desunto il modello probabilmente da un epitalamio, fr. 105, 4-6 Lobel- Page (117 D, 85 Gall.): «come sui monti i pastori con i piedi calpestano un giacinto, a terra il fiore di porpora <è caduto>» . Bergk lo ha attribuito a Saffo, Lobel-Page sono contrari, ma la maggior parte dei critici lo attribuisce alla poetessa di Lesbo. Gallavotti, addirittura, lo unifica con un altro celebre frammento (105 a L.-P.), quello della mela che rosseggia sul ramo più alto. La similitudine, secondo una tesi abbastanza convincente, rappresenta la vicenda del passaggio dallo stato di ragazza a quello di sposa. Catullo gli ha fatto fare uno slittamento semantico, pur aderendo al modello, con una variante importante: al passo pesante dei pastori sui monti (katasteíbousi… en ōresi) sostituisce prati/ ultimi … praetereunte …aratro, con cui coglie quasi la marginalità di quell’amore nella vita tumultuosa di Lesbia e la solitudine impotente del poeta, di fronte all’aratro che immemore passa incurante, cioè Lesbia. Il topos è anche utilizzato da Stesicoro nella Gerioneide (D 6 = 15 SLG, col. II 15, vv. 6- 17: «Senza rumore il dardo/ingannevolmente si piantò nella fronte,/ squarciò carni e ossa/ secondo il volere di un dio;/ e trapassò la freccia/ la sommità del capo,/ macchiò di sangue purpureo/ la corazza e le insanguinate membra./ Gerione inclinò il collo/ di lato, come quando un papavero/ che deturpa il [suo corpo] delicato/ subito lasciati cadere i petali». (tr. Aloni). In Stesicoro compare il papavero che già abbiamo notato in Virgilio Ma se guardiamo più attentamente, ci accorgiamo che l’origine del topos è, al solito, Omero: «come in un giardino un papavero china la testa,/sotto il peso dei semi e delle brezze primaverili / così piegò la testa sotto il peso dell’elmo» (Il. VIII 306-308, tr. Paduano). Si tratta della morte di Gorguzione, figlio di Priamo, colpito da un dardo di Teucro. È un’immagine crudele e gentile, un’ eccezione nel panorama delle formule usate dal poeta per descrivere la morte dei guerrieri. Da qui vengono i papaveri di Stesicoro e di Virgilio. Dopo Virgilio riaffiora in Ovidio, nella descrizione della morte e metamorfosi di Giacinto (Metam. X 186-195; 209-216): «come se in un giardino, viole e un ruvido papavero/ o gigli di gialli stami qualcuno spezza, / questi chinano d’improvviso appassiti il capo pesante,/ si lasciano cadere, e dall’alto volgono lo sguardo a terra,/ così si adagia il volto morendo e il collo senza più forze,/è di peso a sé stesso e ricade sull’omero». Come si vede, Ovidio amplia molto sul piano descrittivo, è immaginifico, ma non ha la divina semplicità di Saffo né l’essenzialità di Catullo né la morbida, ma misurata umanità di Virgilio. Tuttavia ha una sua intrinseca efficacia, se ben recitato. A distanza di secoli lo ritroviamo riutilizzato in qualche modo in Petrarca, Triumphus mortis I 113-117: «Allora di quella bionda testa svelse/ Morte co’ la sua mano un aureo crine:/ così del mondo il più bel fiore scelse/ non già per odio, ma per dimostrarsi più chiaramente ne le cose eccelse». Il poeta sta parlando della morte di Laura e i versi riecheggiano anche la Ciris e Aen. IV 698 ss. Riappare, forse attraverso Virgilio più che Catullo, in Ariosto Orlando Furioso, XVIII str. 153 (morte di Dardinello): «come purpureo fior languendo muore/ che ‘l vomere al passar tagliato lassa». E in Tasso, nella scena di Armida morente, G. L. XX str. 128: «Ella cadea, quasi fior mezzo inciso/ piegando il lento collo», in ambedue i casi senza molta originalità. Anche Foscolo, nel sonetto In morte del fratello Giovanni, pieno di reminiscenze catulliane, e dedicato al fratello morto suicida, non si sottrasse all’utilizzo sintetico e direi connotativo dell’immagine: «… gemendo/ il fior dei tuoi gentili anni caduto». Il Foscolo sceglie la strada di fondere e sintetizzare la similitudine in un nesso partitivo superlativizzante e assegnare all’epiteto gentili il compito di connotare la purezza e la gentilezza dell’immagine di Saffo. Lo troviamo inaspettatamente in Manzoni ne I Promesi Sposi, cap. XXXIV, alla fine dell’episodio celeberrimo della madre di Cecilia: «E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva e mettersela accanto per morire insieme come il fiore rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato». Passo in cui Manzoni riesce a mantenersi in splendido equilibrio tra i toni duri, disperati e abbrutiti dell’episodio e la delicatezza dei sentimenti e dell’immagine. Credo, infine, si possa ricondurre al modello foscoliano, ma avanzo la proposta in modo dubitativo, la complessa operazione di Carducci in Pianto antico: «Tu fior de la mia vita/percossa inaridita/tu dell’inutil vita/estremo, unico fior», in cui il poeta combina i vari elementi tradizionali, amalgamandoli con il senso tutto moderno dell’inutilità della vita, ma fiore, inaridita, estremo ci riportano al campo semantico che abbiamo esaminato È ancora un’immagine vitale, viva e ricca di carica emotiva e non sembra che al tempo di Carducci abbia già la bella età di più di 2.600 anni. E può darsi che sia stata ancora riusata.
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